L'angolo dello scrittore

Vecchi porci

 racconto di Barbara Bernardini    

tratto da www.eleanorerigby.com

 

Come i porci con le ali, ma senza ali e vecchi.
La sussistenza del fallo
I ragazzini del parco il più delle volte lo ignoravano. O si prendevano
gioco di lui. Raramente gli rivolgevano la parola.
Ma quel pomeriggio gli avevano addirittura chiesto un parere sulla
sussistenza o meno del rigore. Sentiva un certo potere in quel
momento, sentiva di essere dentro qualcosa, poteva decidere per
qualcuno. Il ragazzino che aveva subito il fallo era ancora a terra
e, sollevando fra le braccia la gamba con il ginocchio sbucciato, si
soffiava sulla ferita. L’altro, quello che lo aveva spintonato, scuoteva
la testa disegnando con il piede cerchi sulla polvere. Tutti gli altri lo
guardavano aspettando il suo responso.
Sì, era rigore.
Capì di essersi fatto alcuni nemici, ma anche qualche amico.
Il ragazzino ferito uscì dal campo e si sedette vicino a lui.
La sua squadra perdette comunque, ma il rigore aveva dato loro
un momento di vantaggio.
Finita la partita il ragazzino corse zoppicando via coi suoi compagni.
Mentre si allontanava alzò un braccio in segno di saluto.
Fece il solito giro, panettiere, macellaio e alimentari all’angolo sotto
il palazzo. Preferiva loro ai supermercati perché quei negozianti conoscevano il suo nome: Elio. Elio. Era bello sentirlo pronunciare da
qualcuno.
La televisione gli parlava, ma non lo chiamava mai in causa direttamente,
e per i ragazzini era solo “ehi, vecchio” o “ehi, signore”
quando erano in buona vena.
Gli piaceva il suo nome, comunque, e a volte lo pronunciava ad
alta voce in casa, cercandosi fra quelle mura mute. Si ritrovava allora davanti allo specchio con la cornice bronzata, si salutava sorridendo
e sentendosi idiota.
Rientrando nel suo palazzo controllò la cassetta delle lettere, dalla
griglia si vedeva una busta, era arrivata finalmente.
Posò la spesa sul piccolo tavolo in cucina e si sistemò sulla sua
poltrona. Matteo aveva risposto.
Cara Ada…
Piegò le labbra nel breve sorriso che avrebbe avuto sua moglie nel
leggere quella lettera, sentì quella sensazione di calore che avrebbe
avuto lei, sentì di essere Ada, si immaginò di avere le sue mani con le
dita lunghe e nodose per l’artrite, di scorrere con i suoi occhi cerulei
quelle righe, di bisbigliare con la sua voce sottile quelle parole.
Pianse con le lacrime di lei, la lettera sul petto e la busta strappata
fra i piedi.
Aprì la bottiglia di vino e con un bicchiere pieno davanti cominciò
la sua risposta. Caro Matteo…
La sua calligrafia sulle prime storta e sgraziata diventò quella morbida
di sua moglie e la mano prese a scorrere lungo il foglio senza righe.
Una voglia diffusa
Guardava la foto di quel ragazzetto dai lineamenti delicati e cercava
di immaginarselo ormai vecchio, vecchio quasi quanto lui.
Cinque anni di meno aveva Matteo, e quei cinque anni l’avevano
salvato dal partire per la guerra. E così, mentre lui era lontano e scriveva
lettere d’amore alla donna pudica e timorata di Dio che aveva
lasciato sola a casa, lei e quel ragazzino scoprivano improvvisamente
che quel peccato da cui tutti volevano tenerli lontani era incredibilmente
piacevole.
Per quanto nel giro di pochi anni le loro situazioni si sarebbero
ribaltate, lui nuovamente e legittimamente al fianco di lei e Matteo
lontano e relegato nella sola condizione di scriverle delle lettere, Elio
non avrebbe mai avuto la sua giustizia, non sarebbe mai arrivato a conoscerla veramente: quella che si ritrovava in casa era tornata a
essere la piccola fanciulla casta e disinteressata al sesso.
Eppure quel ragazzo ormai era un vecchio come lui, più vecchio
di lui, perché la solitudine che lo stava consumando in quegli anni
di lutto su Matteo aveva avuto molto più tempo per scavare le guance
e far cadere le spalle, aveva avuto una vita intera.
Nell’ultima cartolina che era arrivata, attraverso la calligrafia piccola
e tonda di una qualche infermiera, Matteo le chiedeva di raggiungerlo,
per poterle stringere la mano un’ultima volta, nient’altro
voleva che sentire la sua voce e stringerle le mani.
Prima di prendere in considerazione l’invito, prima di recepire
del tutto l’idea che l’amante di sua moglie stava morendo, cercò di
immaginare l’infermiera che aveva scritto quella cartolina. Quelle
lettere così rotonde e minuscole, immaginò una ragazza dalla carne
morbida e liscia, come quelle piccole pi.
Ma niente, niente, nemmeno la soddisfazione di una mezza erezione,
eppure l’infermiera nella sua testa era davvero un amore di
fanciulla.
Da quando poi aveva cominciato a essere Ada, da quando, dopo la
morte di lei, aveva cominciato a rispondere al suo posto alle lettere
di quell’uomo, gli sembrava volgare e sporco solo pensare di prendere
qualche pastiglia e andarsene con una puttana. Così, nella sua solitudine,
anche il suo coso (così lo chiamava Ada, quelle pochissime
volte che aveva dovuto nominarlo, abbassando gli occhi e dicendo
il tuo coso) l’aveva abbandonato lasciando al suo posto un’appendice
goffa e imbarazzante nella sua inutilità. Era rimasta solo una voglia
diffusa attraverso tutto il corpo che non sarebbe stata in grado di
convogliare sangue in nessun punto specifico.
Aveva deciso, alla fine. Sarebbe andata. Doveva scegliere cosa mettere in valigia. Sarebbe uscito come Elio, per non destare sospetti, e una volta arrivato lì si sarebbe cambiata d’abito nel bagno dell’ospedale. L’idea che non poteva non andare le era arrivata mentre stava in
piedi fra le ante aperte dell’armadio con i loro specchi interni che
moltiplicavano la sua figura all’infinito. Era sempre stata affascinata
da quell’effetto, quante volte suo marito l’aveva spiata mentre muoveva
le gambe e le braccia in una sorta di balletto privato con tutte
quelle repliche di sé che la seguivano in sincronia.
Si guardò meglio, con la maglia del pigiama sgualcita addosso,
penzolante come la sua pelle. Si tirò su drizzando le spalle. Per
Matteo che era ormai cieco avrebbe indossato il vestito delle nozze
d’oro, giacca e gonna blu con la camicetta bianca a piccoli fiori. E
avrebbe comprato una parrucca, dai capelli grigi. E avrebbe riaperto
quelle scatoline con i trucchi che erano rimaste nei ripiani dietro lo
specchio del bagno, immobili, in attesa.
Doveva rasarsi per bene, il viso, le gambe e le mani, perché mai
avrebbe permesso a Matteo di credere che le dita di Ada, le nervose
dita di Ada, avevano peli.
Le sue gambe erano molto più magre e lunghe di quelle di sua
moglie. La gonna gli stava larga sui fianchi e mezzo tallone gli usciva
fuori dalle scarpe, aveva dovuto tagliare il cinturino perché non riusciva
a sganciarlo. Le calzette di nylon gli segavano appena sopra le
ginocchia, dove già qualche minuto dopo averle indossate aveva una
riga rossa che lanciava grida di guerra alle sue vene per ogni passo
falso. E quel reggiseno riempito di ovatta puntava le tette finte dritto
davanti lo specchio, contro la stessa faccia che stava ricoprendo di
trucco imitando i gesti che gli erano rimasti nella memoria.
Ma quando ebbe finito si guardò meglio, si sorrise con le labbra
lucide, decise che il rossetto andava tolto e si pulì con un pezzo di
carta igienica.
Sorrise di nuovo. Ciao, Matteo.
Ancora non andava. Chiuse gli occhi con le ciglia più pesanti per
via del rimmel, bevve un sorso d’acqua. Addolcì la voce, cercando di continuare a sorridere mentre di nuovo ripeteva ciao, Matteo.
Ancora, più leggera, via la sua pancia, stretta. Ciao, Matteo, ciao,
Elio.
Ora sì.
Riaprì gli occhi, fissò se stessa nello specchio e salutò il suo ritorno.
Mi sei mancata, Ada.
La macchia del miracolo
Si sedette sul bordo del letto, con le gambe larghe. Aveva dovuto
tirare su un po’ la gonna e ora aveva le ginocchia scoperte. L’infermiera
lo guardava con una curiosità spenta. “Ah, lei è Ada” aveva
detto, ma sembrava non crederci del tutto. Si disse fra sé che i vecchi
sono come i neonati, nessuno può capire davvero se sono maschi o
femmine senza guardare i genitali. Così si ricompose, stringendo le
gambe e tirando un po’ il bordo della gonna con il pudore di una
vecchia signora, la guardò fissa e le disse di lasciarli soli.
La donna prima di andarsene gli disse che era stata lei a scrivere,
sotto dettatura del signor Guideni, la cartolina. Disse povero signor
Guideni, povero, ci teneva molto a incontrarla di nuovo, ma ora
non è più consapevole di ciò che ha intorno. Oramai. Scuoteva un
po’ la testa, ma non era rammaricata. Povero, continuava a dire,
coma diabetico, povero, ci teneva.
Le guardò il viso scialbo, con quegli occhietti che non esprimevano
niente altro che un leggero rimprovero rivolto a nessuno in particolare,
le gambe tozze, le mani già da vecchia. Pensò alla figliola che si
era figurato qualche giorno prima con l’intenzione di tirarsi una sega.
“Dalla calligrafia ti avrei immaginata molto diversa, sai cara?”
Ecco perché non aveva funzionato, ecco perché.
Le sorrise, salutandola con il capo. I ricci della sua parrucca rimasero
immobili.
Rimasto solo con quel vecchio si rimise comodo, si tolse le scarpe
e allargò un po’ le cosce. Se quel che rimaneva del giovane che mentre lui era prigioniero dei tedeschi in Grecia apprendeva da sua moglie i primi rudimenti del sesso avesse avuto un briciolo di vista,da quell’angolazione avrebbe potuto vedere sotto la sua gonna. Il
fatto di portare le mutande di sua moglie, che fino ad allora gli era
sembrato naturale, all’improvviso lo turbò. Pensare che quell’uomo
avrebbe potuto sbirciargli fra le gambe, pensare che il suo coso
ora premeva contro quelle stesse mutande che aveva indossato lei.
Pensare, finalmente senza più gelosia ma con una punta d’orgoglio,
che quei rudimenti era stato proprio lui a insegnarli alla moglie,
che prima di incontrarlo era solo spaventata dalla confusa idea del
peccato che aveva. Tutto lo turbava. Piacevolmente.
Rilesse mentalmente le prime lettere che Matteo e Ada si erano
scritti. I vari pezzi di ricordi con cui era riuscito a ricostruire cosa
successe fra loro.
Il viso del vecchio in coma nel letto stava tornando quello dolce e
sbarbato del giovanetto sulla foto. Gli prese la mano e la portò dove
finalmente, insperato, aveva avvertito un movimento.
Guardò con un senso di vaga giustizia i tubi che tenevano il corpo
del suo nemico sospeso in una zona imprecisata fra la vita e la morte.
Nemico e ultimo amico, amico avuto pure con l’inganno, questo
è vero, ma l’ultima persona che gli aveva donato delle parole d’affetto.
Che non fossero rivolte direttamente a lui ma a sua moglie era
insignificante, al collo aveva la catenina di lei, portava la sua gonna,
scriveva con la sua calligrafia l’infermiera l’aveva chiamata, proprio
dieci minuti prima, Ada.
Portava le sue mutande.
La mano inerme che aveva in mezzo alle gambe era contemporaneamente
la mano di Matteo fra le gambe di sua moglie e quella di
sua moglie fra le sue gambe. Ed era la sua mano che guidava quella
di entrambi, lui che alla fine si era dimostrato il più forte fra i tre, lui
che alla fine era ancora vivo ed eccitato, ancora vivo e duro. Cercò di nuovo la voce della moglie nella sua gola, sospirò prima
il suo nome, così come lei, pudica, non aveva mai fatto, Elio, poi
quello del suo amante.
Il corpo di Matteo fu scosso da piccoli scatti nervosi, la mano si
chiuse, solo un attimo.
Elio e Ada sorridevano, finalmente riappacificati l’uno con l’altro
e ognuno con il proprio corpo.
Elio sfilò la mano di Matteo dalle proprie mutande, la sollevò e
rimase a fissare con incredulità e soddisfazione l’ultimo insperato
rigurgito della sua virilità che c’era rimasto attaccato. Scostò il lenzuolo
e gliela infilò nei pantaloni del pigiama, lasciandolo in una
situazione per la quale l’infermiera dalle piccole pi, poco più tardi,
passando dal letto del povero, povero signor Guideni – seppur costretta
a lavarlo e cambiarlo ben prima rispetto al dovuto – avrebbe
gridato al miracolo.